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Un vicino morbido come la seta (prima parte)
di eborgo
03.05.2023 |
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"Potrei anche lasciarla in strada, l’auto, ma ci sono un sacco di stronzi la fuori che ti rigano la fiancata con un chiodo solo perché hanno bevuto troppa..."
Venerdì 30 settembre 2022, Ore 20:15Trascrizione da Nastro. Deposizione raccolta in Questura. Dossier IC-01
La sera del 24, come del resto tutte quante le sere del cazzo della mia vita, ho chiuso lo studio verso le diciannove e trenta, ho preso la macchina e me ne sono tornato a casa in mezzo a un traffico caotico che viaggiava a passo d’uomo. In quel periodo non si batteva un chiodo, quei pochi lavori che avevo erano fermi e all’orizzonte non compariva nulla di nuovo. Faceva un caldo allucinante e la mia Fred Perry mi stava incollata addosso come una seconda pelle. I pantaloni mi strizzavano la zona pubica e non vedevo l’ora di levarmi dai piedi le mie Saxons.
Comunque, un metro alla volta, guardando le facce incazzate degli altri automobilisti accanto a me e coprendo tutti i rumori con la musica a palla, sono arrivato a casa.
Io abito sul fiume, un palazzo di nove piani, brutto come un politico della Lega e anonimo come un candidato del Pd. Ma abitando all’ottavo piano ho una vista magnifica sul fiume e sulla collina, un terrazzo che tutti mi invidiano e non sento quasi il rumore della strada.
Ma tornando a bomba, sono arrivato a casa che saranno state le otto passate. Ho infilato la rampa che portava ai garage e sono arrivato davanti al mio box. Potrei anche lasciarla in strada, l’auto, ma ci sono un sacco di stronzi la fuori che ti rigano la fiancata con un chiodo solo perché hanno bevuto troppa birra o perché il buon dio, quando li ha spediti sulla terra, si è dimenticato di mettere il cervello nella scatola. Così, ho spento il motore e sono sceso dal trabicolo. Il bolide con cui mi sposto di qui e di là, è una Volvo P1008S del 65, un catorcio se ce n’è uno in circolazione, ma era di mio padre e ci sono affezionato.
Dunque, sono sceso dalla macchina, ho aperto la serranda del box e ho parcheggiato la Volvo. Mentre scendevo ho notato che il vano accanto al mio era spalancato e ho sentito spostare scatole e robe varie. Il box accanto al mio appartiene al signor Ricchiardiche abita due piani sotto di me ed è persona di rara gentilezza. Qualche volta giochiamo a tennis insieme e negli ultimi tempi mi ha dato anche parecchio lavoro. É vedovo da alcuni anni, sulla cinquantina spinta, molto per bene e fin troppo affettato.
La Sua Bmw era parcheggiata fuori dal box, e per terra ho visto diversi scatoloni. Il Baule della sua auto era aperto. Ho scavalcato quella specie di barriera di cartone e mi sono affacciato nel box. Ricchiardi era chino sugli oggetti che occupavano il fondo del vano. Come tutti gli altri, il locale era fiocamente illuminato da una di quelle lampade a basso consumo che fanno risparmiare, ma ti lasciano al buio. É una mania dell’amministratore. Probabilmente la differenza se la mette in tasca.
Dicevo, Ricchiardi aveva indosso i pantaloni blu di una di quelle tute In tessuto lucido leggero che vanno forte adesso, una tee-shirt bianca e un paio di infradito di plastica nera con la suola spessa.
Ho dato un colpo di tosse e lui si è voltato. Mi ha riconosciuto e mi è venuto incontro.
Abbiamo parlato per qualche minuto del tempo e del caldo schifoso di quei giorni. Ricchiardi è alto qualche centimetro più di me, magro, con un pelo di pancetta, ma ancora robusto per la sua età. Ha un viso lungo, la mascella tonda e il mento sfuggente. Il naso è sottile e curvo, quasi aquilino, con le narici leggermente allungate. La bocca è carnosa, quasi femminile e la fossetta sopra al labbro superiore è piuttosto pronunciata. È stempiato, ma porta i capelli grigi, lunghi, pettinati all’indietro con una coda di cavallo.
Chiacchierando, con una mano si carezzava il collo dal pomo d’Adamo sporgente, un gesto che fa sempre quand’è concentrato.
Alla fine, per tagliare corto, gli ho chiesto se avesse bisogno di aiuto. In effetti, ha ammesso, sapeva che sarei arrivato a quell’ora e mi stava aspettando. Se gli davo una mano a spostare uno scatolone molto pesante in fondo al vano, me ne sarebbe stato molto grato. Gli ho detto che non c’era problema.
L’ho seguito nel box e ci siamo avvicinati ad una grossa scatola di legno piena di documenti, libri e cartacce vecchie di ogni tipo. Se mi mettevo davanti a lui e spingevo la parte davanti lui l’avrebbe fatto con quella dietro. Bastava spostarlo verso il fondo di un metro. Per terra era steso un sacco a pelo aperto e Ricchiardi ha detto che se non riuscivamo a muoverla avremmo potuto infilare il sacco a pelo sotto la cassa per renderla più scorrevole. Gli ho detto che in due l’avremmo sicuramente spostata.
Ho allontanato con il piede un rotolo di corda che c’era sul pavimento e che intralciava il cammino, poi mi sono appoggiato con entrambe le mani al bordo e ho cominciato a spingere come un dannato. Ma quella cassa di merda pesava veramente una tonnellata.
Ho fatto per voltarmi verso Ricchiardi quando mi sono sentito afferrare da dietro. In pratica, mi ha acchiappato bloccandomi le braccia all’altezza dei gomiti e mi ha attirato contro di se. Non ho nemmeno avuto il tempo di sorprendermi perché mi ha subito premuto sul viso un tampone imbevuto non so di quale porcheria e io, colto di sorpresa, ne ho inalata una buona dose.
Se mi avessero infilato un cavo elettrico su per il cervello sarebbe stata la stessa cosa. Le gambe mi hanno ceduto immediatamente e se lui non mi sorreggeva sarei finito lungo e tirato per terra. Comunque, ho avuto ancora forza sufficiente per divincolarmi e liberare la bocca. Ho gridato ma nessun suono è uscito dalla mia gola. Lui mi ha schiacciato con il suo corpo contro la cassa di legno e mi ha propinato una seconda dose di aria di Milano.
Non so se vi sia mai capitata una cosa del genere, ma in pochi secondi il vostro cervello se ne va in tilt. Quattro milioni di domande simultanee mi frullavano per la testa e sentivo gli occhi che mi si chiudevano. Un torpore diffuso cominciava anche a prendermi le membra. Ho pensato che dovevo fare qualcosa prima che fosse troppo tardi e di nuovo mi sono divincolato. Questa volta, con la forza della disperazione sono riuscito a sfuggire alla sua stretta. Ma le gambe mi hanno tradito e mi sono dovuto appoggiare su un ginocchio. Lui, invece di tirarmi su, mi ha spinto in avanti e io, ormai mezzo cotto, sono caduto a pancia sotto sul sacco a pelo. Prima che potessi fare un solo movimento Ricchiardi mi si è seduto sulla schiena bloccandomi la braccia tra le sue ginocchia. Poi mi ha preso per i capelli, mi ha tirato indietro la testa e mi ha rifilato la terza dose di narcotico.
A quel punto, se ci avessi fatto a pugni, me le avrebbe ficcate anche un bambino di cinque anni. Per giunta non mi capacitavo della cosa. Perché Ricchiardi faceva una cosa del genere? Un persona solitamente gentile e premurosa. Che fosse impazzito?
Voleva rapirmi? E che riscatto poteva chiedere per uno come me? Non ho un penny, non ho più i genitori, nessuno che pagherebbe per riavermi indietro. La mia ragazza gli avrebbe piuttosto dato dei soldi perché non mi rimandasse a casa.
Tutte queste domande e altre anche più astruse mi giravano confusamente per la testa. Mi sembrava di essere immerso nella maionese, ogni rumore arrivava ovattato alle mie orecchie, come un’eco lontana.
Ho sentito che mi spingeva tra le labbra un grosso tampone di tessuto che sotto la pressione delle sue dita mi ha riempito la bocca costringendomi a tenerla spalancata. Ha preso del nastro adesivo e lo ha girato due o tre volte attorno alla mia testa per tenere al suo posto quel cazzo di bavaglio. Ho cominciato ad aver paura, anche se si trattava di una sensazione lontana, come riferita a qualcuno che non fossi io.
Io volevo muovermi ma il comando partiva dal mio cervello e non arrivava da nessuna parte. Ricchiardi si è spostato indietro, sempre stando seduto sulla mia schiena. Ha preso le mie mani, le ha incrociate sulla schiena e mi ha legato strettamente i polsi uno contro l’altro. Sentivo che lo stava facendo ma sembrava un sogno, era come se stessi guardando la scena dall’esterno, come se tutto ciò stesse accadendo a qualcun altro. Sentivo le sue mani sotto la pancia, corde che si stringevano su di me. I nostri respiri parevano più lenti e amplificati.
Fatto sta, che quando si è alzato dalla mia schiena, non solo non riuscivo a muovere le mani ma neppure potevo staccarle dal dorso.
Mi ha legato le caviglie, poi mi ha costretto a piegare indietro le gambe e quando ha finito con le corde non le potevo più allungare. Il me stesso che mi stava guardando da fuori ha suggerito che mi avesse attaccato polsi e caviglie con un corto pezzo di corda, come fa la camorra quando chiude un traditore nel bagagliaio della sua auto.
Ero sfinito, la testa mi girava e non riuscivo più ad aprire gli occhi. Credo che Riccchiardi abbia buttato nel box i quattro scatoloni che c’erano fuori e, dopo aver spento la luce ne abbia chiuso la basculante. Mi sono ritrovato al buio, un leggero batticuore e questa merdosa sonnolenza che mi prendeva minuto dopo minuto. Ho ancora avuto il tempo di pensare che quello era il motivo per cui mi stava aspettando e che doveva aver preparato con cura il mio sequestro. Volevo chiedermi il perché ma sono scivolato nell’incoscienza.
Sabato 1 ottobre 2022, Ore 02:30
Trascrizione da Nastro. Deposizione raccolta in Questura. Dossier IC-02
Mi sono risvegliato lentamente, con un pessimo sapore in bocca e facendo fatica ad aprire gli occhi. Era buio pesto e avevo avuto un incubo della madonna. Era sicuramente colpa della quiche ai peperoni che avevo mangiato a pranzo; quella roba è troppo pesante. Ho cercato di portare le mani agli occhi per sfregarmeli ma quelle sono rimaste ferme al loro posto. Ho provato di nuovo e le corde che me le legavano sul dorso mi hanno sfregato la pelle.
Il batticuore è ricominciato all’istante, non appena mi sono reso conto che non era affatto un sogno ma la pura e semplice realtà. Ho cercato di muovermi ma anche le mie caviglie erano legate e nemmeno potevo stendere le gambe che stavano piegate dietro la mia schiena. Di nuovo l’ansia mi ha afferrato le viscere e me le ha strizzate per bene. Rapito da Ricchiardi, legato, imbavagliato e chiuso in un garage. Non riuscivo a capacitarmi, né immaginavo perché avesse potuto fare una cosa del genere. Mi sentivo la testa piena di cotone e quando si è aperta la serranda del box quasi non l’ho sentita. Probabilmente era tardi, ma non avevo la più pallida idea di quanto tempo fosse passato.
Si è accesa la luce e Ricchiardi è venuto vicino a me. Non ha pronunciato nemmeno una parola, che so, buonasera, come va? o roba del genere. Che cazzo di situazione, se dicessi che non me la facevo sotto mentirei.
Ha slegato la corda che collegava polsi e caviglie permettendomi di stendere finalmente le gambe. Le mie ginocchia hanno cigolato come le zampe di una sedia quando ci si siede sopra Gerard Depardieu.
Mi ha preso sotto le ascelle e mi ha aiutato a tirarmi in piedi. Avevo ancora le caviglie legate e mi ha dovuto sorreggere altrimenti sarei andato lungo e tirato per terra.
I nostri sguardi si sono incontrati. Il mio doveva essere sconvolto, il suo era tranquillo, come se stesse riordinando il garage. Ho mugolato e cercato di sfuggire alla sua presa ma lui mi ha tenuto fermo.
« Stai fermo » ha detto, « non voglio farti del male. »
Una situazione davvero imbarazzante.
Si è piegato e mi ha caricato sulle spalle come un sacco, mani legate dietro alla schiena e tutto il resto. Non riuscivo a fermare quel cazzo di batticuore che mi scuoteva il petto.
Siamo usciti dal box. Sempre reggendomi come un vecchio tappeto ha spento la luce e chiuso la porta basculante. Io potevo solo guardare per terra. Le sue gambe e il culo coperti dalla tuta lucida e i suoi talloni nudi calzati dalle infradito erano tutto ciò che riuscivo a vedere. Pavimento a parte.
Siamo entrati in ascensore e siamo saliti. Avevo una leggera nausea e la posizione a testa in giù sulla spalla del Ricchiardi non mi aiutava molto.
La porta di casa si è aperta con un leggero suono asmatico. Siamo entrati e lui l’ha chiusa alle nostre spalle. Ero Fottuto. Lì dentro non mi avrebbe trovato nessuno.
Conoscevo la casa per esserci stato diverse volte. É un grande appartamento, molto signorile ed elegante. Ricchiardi, oltre a rapire poveri innocenti, è molto benestante e persona di ottimo gusto, ancorché un poco borghese. Abbiamo attraversato l’ingresso e siamo entrati nel suo enorme salotto. Mi ha scaricato su un morbido divano di pelle chiara, appena più piccolo di piazza San Pietro, che per l’occasione aveva addobbato con un lenzuolo di raso color argento a mo’ di mezzaro.
La stanza era in penombra, appena rischiarata da una costosa lampada a piantana di design. La lunga vetrata che dava sul fiume era nascosta dalle pesanti tende azzurre.
Ricchiardi ha preso un pezzo di corda da un basso tavolino di cristallo, mi ha fatto piegare le gambe e mi ha legato nuovamente assieme polsi e caviglie.
Mi ha osservato per qualche secondo, come per assicurarsi che non potevo tagliare la corda, poi è uscito dal salotto lasciandomi solo.
Ero teso come una corda di violino. Il batticuore continuava a devastarmi il petto e non riuscivo assolutamente a capire cosa volesse da me. E quelle corde di merda, impedendomi ogni movimento, non facevano che aumentare la mia angoscia. Mi sono appoggiato all’indietro e ho chiuso gli occhi. Avevo una voglia bestiale di pisciare ma così impastoiato potevo solo farmela addosso.
Mi son guardato attorno. Mobili eleganti, qualche quadro d’autore alle pareti, sculture lignee del tre o quattrocento, il divano sul quale ero prigioniero, un’altro di fronte un pelo più piccolo, due poltrone monumentali e una morbida moquette indaco sul pavimento. In un angolo, al fondo del salotto, un pianoforte a coda pareva un grosso insetto nero accucciato nella penombra.
Come cella non era male. Il tampone in bocca e il nastro adesivo sulla faccia mi davano fastidio. Mi ha preso un momento di scoramento bestiale. Ho provato a liberarmi dalle corde ma i miei tentativi erano più inutili del cervello di Gasparri.
Mi sono abbandonato sul morbido raso che ricopriva il divano e ho gettato la spugna. Sono passati così una cinquantina di minuti poi una figura indistinta è comparsa dietro i vetri smerigliati della porta scorrevole che portava al corridoio delle camere da letto. Le ante si sono aperte scorrendo silenziosamente sui cuscinetti a sfera ed’è apparsa questa tipa in négligée e tacchi alti, Una silhouette scura contro la luce forte del corridoio. Se non fossi stato imbavagliato avrei avuto la bocca aperta per la sorpresa.
Stava fumando, aspirando lentamente da una lunga sigaretta e soffiando il fumo nella stanza in morbide volute turbinanti. É rimasta a guardarmi in silenzio, appoggiata allo stipite della porta, Potevo intravvedere delle calze di nylon scure, una specie di corsetto nero e un reggiseno anch’esso nero, ma tutto era confuso e si fondeva nell’oscurità della figura controluce. Solo il negligee era riconoscibile; le arrivava poco sopra le ginocchia ed era aperto, nero e molto trasparente. Le maniche svasate si fermavano con una striscia più scura, forse di raso, appena sotto il gomito.
É rimasta a guardarmi senza parlare, fumando con calma la sua stronza sigaretta. Non le vedevo il viso perché era completamente in ombra e troppo lontano perché la luce dell’abat-jour potesse illuminarlo. Le gambe velate di nylon erano forti e ben disegnate e ai piedi calzava un paio di sandali neri con il tacco alto, formati da un semplice reticolo di sottili strisce di pelle a cavallo del piede e un cinturino attorno alla caviglia. Aveva i capelli scuri, in parte sollevati e fermati sulla nuca in un disordine studiato.
Ha soffiato il fumo dell’ultimo tiro e si è voltata verso il mobile di fianco alla porta per spegnere la sigaretta in un portacenere.
Così facendo mi ha mostrato il suo profilo e a me è venuto un colpo.
Il naso aquilino e la forma delle labbra non lasciavano dubbi. Non era una donna, era Ricchiardi “en travestì”. Se avessi visto Nosferatu non mi sarei preso uno spavento più grande. Un gemito mi è sfuggito da sotto al bavaglio e inconsciamente mi sono rannicchiato quel tanto che mi consentivano le corde. Il batticuore è ricominciato furioso.
É venuto lentamente verso di me, ancheggiando appena, i tacchi silenziosi sulla spessa moquette. Adesso potevo vederlo in viso, potevo vedere il trucco pesante sugli occhi, il fondotinta che ricopriva il mento e ammorbidiva i suoi tratti, il rossetto rosa pallido sulle labbra. Dovevo essere sbalordito perché mi ha sorriso divertito.
In effetti indossava questa corta vestaglia trasparente, nera, fatta di nulla. Solamente le falde davanti e le maniche erano bordate di raso nero. Dal corsetto scendeva il reggicalze al quale erano appese le fasce più scure delle calze di nylon. Il reggiseno di seta nera aveva poco da nascondere e si intravvedevano i capezzoli che spingevano sul tessuto teso. Due lunghi giri di perle scendeva dal collo. Indossava anche un paio di guanti da sera, di raso nero, lunghi fino al gomito. Sulla sua figura controluce non li avevo notati.
Vi giuro che ho visto poche cose in vita mia tanto sorprendenti. Frequenti un signore gentile per un sacco di tempo, ci lavori, ci giochi a tennis, chiacchieri, mangi e guardi la tv insieme a lui e una sera te lo ritrovi davanti vestito da mangiatrice di uomini.
E ti ha pure legato come un salame. Sono cose che danno da pensare.
Si è fermato davanti a me, in piedi. Le morbide culottes di raso nero che aveva indosso rivelavano un lucido gonfiore, non molto femminile, che si trovava esattamente davanti ai miei occhi.
In uno sfrigolio di serici riflessi, si è seduto sul divano accanto a me e ha posato sigarette e accendino sul tavolino di vetro. Ho pensato che non avevo mai visto Ricchiardi fumare prima di quella sera. Forse lo faceva solo il suo alter ego.
« Adesso ti tolgo il bavaglio » mi ha detto. Era la sua solita voce ma leggermente in falsetto, vagamente effeminata. Mi è corso un brivido lungo la schiena, mi ha camminato leggero, sulle sue zampette gelide, dall’attaccatura del collo fino alla riga tra le chiappe.
Lui mi ha chiesto gentilmente di non gridare perché non me ne avrebbe lasciato il tempo e, nel caso, mi avrebbe dovuto punire. Ha detto proprio così, punire. Ho fatto cenno di si con la testolina. Non riuscivo a levare lo sguardo dal suo.
Piano, cercando di non strapparmi via la faccia, ha tolto il nastro adesivo dalle mie labbra così ho potuto finalmente sputare quella merda di tampone. Avevo la bocca indolenzita e asciutta. Gli ho detto che avevo urgenza di andare al gabinetto.
« Prima ti faccio andare in bagno » ha concesso, « poi possiamo parlare ».
Mi ha liberato le gambe e slegato le caviglie. Ha allungato le mani sulla mia cintura e io ho fatto un balzo indietro.
« Fermo » ha detto per rassicurarmi, « ti ho detto che non voglio farti nulla di male ». Mi ha slacciato la cintura e sbottonato i pantaloni. « Non essere timido » ha aggiunto sfilandomeli.
Sono rimasto in mutande, tutt’altro che rilassato. Lui ha preso la corda e mi ha legato le caviglie lasciando fra loro due tratti di corda di una quarantina di centimetri.
Si è alzato e mi ha aiutato a rimettermi in piedi. Ero ancora malfermo sulle zampe e mi sono dovuto appoggiare a lui. Il profumo elegante di cui era imbevuto mi ha riempito le narici. Ho sentito le sue mani sui fianchi stringere leggermente la presa e questo mi ha fatto passare di colpo ogni malessere. Mi sono raddrizzato e allontanato di un passo da lui.
« Io sono Moira » ha sussurrato prendendomi per un braccio. « Puoi considerarmi la sorella di Ricchiardi. » Con tacchi e tutto il resto mi superava di tutta la fronte. Non ho risposto perché non avrei proprio saputo cosa dire. A piccoli passi, quanto mi consentivano le corde alle caviglie, mi ha accompagnato in bagno e mi ha aiutato a sedermi sul cesso. Superare l’imbarazzo non è stata una cosa facile ma alla fine sono riuscito a fare quel che dovevo fare.
Ha aperto un’anta della specchiera e ha preso un paio di forbici cromate. Siamo tornati in salotto e mi ha fatto accucciare nuovamente sul divano sedendomisi accanto. Mi ha fatto piegare le ginocchia e ha collegato le corde delle caviglie con quelle che mi legavano i polsi. Se continuava a legarmi così avrei perso l’uso delle gambe.
« Che cosa vuole da me? » ho chiesto, forse un po sgarbatamente.
Ha giocato un po con le forbicine, aprendole e chiudendole, seduto accanto a me, le gambe accavallate e lo sguardo basso.
« Voglio te » ha risposto guardandomi negli occhi. « Ti voglio da un sacco di tempo. Mi ecciti, ti penso in continuazione. »
Ero a bocca aperta. Me lo aveva detto tranquillamente, come avessimo parlato del tempo.
« Ho voglia di scoparti » ha continuato sottovoce. « Tutte le volte che Moira ha il sopravvento non faccio che fantasticare sul tuo corpo, sulla tua bocca e mi masturbo piano, pensando a te. »
Mi si è avvicinato e ha cominciato a tagliare sul davanti la mia Fred Perry nuova di zecca. Ero talmente sbalordito che a malapena sono riuscito a protestare.
« Mi immagino di baciarti, di sentire la tua lingua nella mia bocca, le tue mani sul mio corpo. »
Ha finito di tagliare la mia maglietta e l’ha aperta in due, poi ne ha tagliato anche il bordo superiore delle maniche e me l’ha sfilata di dosso. Sono rimasto a torso nudo, inerme, piuttosto spaventato devo ammettere.
« Mi spiace di averti dovuto prendere in questa maniera » ha detto prendendo il bordo delle mie mutande tra le dita, « ma se ti avessi fatto la corte non avresti accettato. Sei giovane, bello... ». Ha fatto una pausa e con due colpi di forbice ne ha tagliato i lati e mi ha sfilato le mutande di dosso. « Ma Moira è una donna che sa come sedurre, vedrai. Ti piacerà ».
Istintivamente mi sono ritratto e ho cercato di far sparire magicamente il mio sesso tra le gambe. Mi sentivo estremamente nudo e drammaticamente indifeso.
Lui ha cominciato ad accarezzare il lucido gonfiore delle sue mutandine di seta, ha allargato leggermente le gambe e la sua mano lo ha sfregato e stuzzicato lentamente. Il suo sguardo correva su di me, sul mio petto, sulle mie gambe. Io non riuscivo a muovere un muscolo, trattenevo quasi il respiro, avrei voluto scomparire in una nuvola di fumo. Le corde strette attorno alla vita fissavano solidamente alla schiena i miei polsi legati, impedendomi di usarli come puntello per spostarmi.
Piano, come un mollusco che esce dal guscio, il suo uccello duro è venuto fuori dalle mutandine, sempre avvolto dalle sue dita fasciate di raso. Ha cominciato a masturbarsi piano, premendosi contro di me. Ha sollevato una gamba e l’ha appoggiata sul divano, spingendola tra le mie ginocchia. Io stavo schiacciato contro lo schienale, incapace di muovermi, il fiato corto e gli occhi sbarrati.
Il suo sesso è diventato completamente duro tra le sue mani, lungo e sottile, il glande rosso e scoperto. Mi guardava con gli occhi socchiusi, il fiato corto, eccitato, concentrato sui suoi pensieri erotici. Ciocche di capelli neri gli cadevano sul viso.
Ansimando, è venuto spruzzando il suo seme in quel che rimaneva delle mie mutande. Lunghi spasmi dell’uccello, le labbra aperte e la punta della lingua che faceva capolino. Il suo corpo scosso da brividi di eccitazione si è lentamente calmato.
L’ho guardato mentre i suoi muscoli si rilassavano. Non era Ricchiardi quello, era un’altra persona. Parlava in maniera diversa, aveva un altro odore, un altro nome, un altro sesso. Ero tirato e stanco, i muscoli indolenziti per la forte tensione.
Con il brandello di mutande si è pulito l’uccello ormai in fase di smollamento, poi lo ha gettato per terra. Si è voltato verso di me. Ha fatto per carezzarmi una guancia ma io mi sono ritratto. La sua mano guantata e rimasta a mezz’aria.
« Ti chiedo scusa » ha detto senza sorridere, « non ho resistito. Insieme sarà molto più bello. » Si è alzato e ha preso un secondo lenzuolo di raso argento che aspettava piegato su una delle poltrone. Lo ha disteso e me lo ha messo addosso come coperta poi è venuto sotto anche lui e si è sdraiato sul divano accanto a me. Mi si è schiacciato contro e mi ha abbracciato. Io ero duro e teso come un baccalà.
« Cerca di dormire » mi ha mormorato in un orecchio. « Non ti faccio nulla, ti voglio solo sentire vicino ».
Il suo profumo era dovunque e morbidi tessuti serici strusciavano contro la mia pelle. Ho appoggiato la testa sul bracciolo e ho chiuso gli occhi. Il mio corpo tremava leggermente e ho fatto qualche lungo respiro per calmarmi. Ero convinto che avrebbe cercato di fare sesso con me e questo mi teneva sveglio e sul chi vive. Invece, in capo a una quindicina di minuti il suo respiro regolare mi ha indicato che stava dormendo.
Perché non ho cercato di filarmela? Se provavo ad alzarmi o a liberarmi si sarebbe sicuramente svegliato, ecco perché, quindi ho deciso di aspettare un’occasione migliore. Mi sono rilassato e sono lentamente scivolato in un sonno tutt’altro che tranquillo.
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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